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Democrazia e sicurezza. La nuova sfida del Covid-19

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Per citare questo articolo: Ferrari G., Dommarco P. (2020). Democrazia e sicurezza. La nuova sfida del Covid-19. Intervista a Fabrizio Battistelli e a Nicola Labanca. Radio Covid, Ossopensante, Roma.


Ospiti della puntata: Fabrizio Battistelli, professore di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università degli Studi di Roma, e Nicola Labanca, professore di Storia Contemporanea e Storia Militare presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Siena.
Al microfono: Pietro Dommarco, con Giovannipaolo Ferrari.

Pietro Dommarco: “Buonasera e benvenuti al settimo appuntamento in diretta con Radio Covid, i podcast dalla Generazione Covid. Pietro Dommarco al microfono. Con me Giovannipaolo Ferrari. Oggi parliamo di Democrazia e sicurezza: la nuova sfida del Covid-19 e lo faremo con: Fabrizio Battistelli, professore di Sociologia dell’Università di Roma La Sapienza dove ha insegnato anche Sociologia dell’organizzazione internazionale e Sociologia della sicurezza e dove ha diretto il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dal 2009 al 2014. Nonché presidente dell’IRIAD (Istituto di Ricerche Internazionali e Archivio Disarmo). Fabrizio Battistelli è autore di numerosi studi sui temi della pace e della guerra, sul rapporto tra democrazia e sicurezza e sul ruolo delle forze armate nel nostro Paese tra cui gli Gli Italiani e la guerra. Tra senso di sicurezza e terrorismo internazionale, Manuale di Sociologia militare, La fabbrica della sicurezza, La sicurezza e la sua ombra. Terrorismo, panico, costruzione della minaccia e Opinioni sulla guerra. L’opinione pubblica italiana e internazionale di fronte all’uso della forza. Ultima sua fatica La rabbia e l’imbroglio. La costruzione sociale dell’immigrazione. L’altro ospite è Nicola Labanca, professore di Storia contemporanea e Storia militare, presidente del Corso di Laurea Magistrale in Documentazione e ricerca storica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena. Inoltre, il professor Labanca, ha insegnato Storia e comunicazione dei conflitti e Storia dell’espansione europea. Si è impegnato lungo tre maggiori filoni di ricerca: il rapporto tra guerra, forze armate e società nell’Italia otto-novecentesca, la storia politica sociale e culturale dell’espansione coloniale italiana fra Italia liberale e regime fascista e lo studio della guerra totale otto-novecentesca. Il suo maggiore impegno di ricerca attuale verte sulla storia militare dell’Italia repubblicana, dal 2000 è presidente del Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche Storico-militari. Tra i suoi scritti Dizionario storico della Prima Guerra Mondiale, Forze armate. Cultura, Società, Politica, Una cultura professionale per la polizia dell’Italia liberale e fascista, Guerre contemporanee. Dal 1945 ad oggi, L’Italia e il militare. Guerra, nazione, rappresentazioni dal Rinascimento alla Repubblica, Il soldato, la guerra e il rischio di morire.
Dalla paura del contagio alla psicosi e alla richiesta di maggiore sicurezza, dall’uso della metafora bellica propriamente o impropriamente allo stato di salute delle democrazie di tutto il mondo, dal ruolo giocato dalle forze dell’ordine e quello della Protezione Civile. Come l’emergenza attuale sta mettendo alla prova le istituzioni e la loro capacità di trovare soluzioni che minimizzino i danni subiti senza limitare le libertà individuali. Ne discutiamo tra poco.”
[pausa] “Buonasera di nuovo da Radio Covid. Un saluto ai nostri ospiti. Professor Fabrizio Battistelli, professor Nicola Labanca e come sempre Giovannipaolo Ferrari. Ci siete?”

Fabrizio Battistelli: “Si, buonasera.”

Nicola Labanca: “Buonasera a tutti, grazie.”

Pietro Dommarco: “Grazie per aver accettato il nostro invito. Giovannipaolo, subito a te la parola.”

Giovannipaolo Ferrari: “Grazie Pietro, buonasera ai nostri radioascoltatori, buonasera ai nostri ospiti e una prima domanda la rivolgerei al professor Battistelli. Professore, dall’inizio dell’epidemia, prima in Cina poi in Europa e infine nel globo intero, tutti, politici, giornalisti, medici, economisti, opinionisti hanno definito l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo una ‘guerra’. Prendo a titolo esemplificativo il discorso di Emmanuel Macron al popolo francese che in diretta televisiva all’indomani delle elezioni amministrative in Francia del 15 marzo scorso. Ebbene in quel discorso il presidente francese ha usato per ben sei volte il termine guerra. Ogni volta per definire la situazione corrente e per evidenziare la gravità del momento. Gravità che fino al giorno prima in Francia era stata ignorata e che aveva portato circa 22 milioni di cittadini francesi ad uscire dalle proprie abitazioni per recarsi alle urne. “È una guerra, siamo in guerra, è una guerra contro un nemico invisibile che però alla fine riusciremo a sconfiggere”. Questi i toni utilizzati da Macron e dagli altri premier delle altre nazioni una volta risvegliatisi, diciamo così, dal loro sogno di intoccabilità. Lei professore ha dedicato molta attenzione nei suoi studi all’utilizzo della metafora nei contesti organizzativi. In particolare, all’uso della metafora della guerra per descrivere differenti scenari e allo strumento della metafora applicato alla rappresentazione delle forze armate nel nostro Paese. Ultimamente è stato anche protagonista su alcuni giornali e riviste di una diatriba sull’uso proprio o improprio della metafora bellica. Molti in questi giorni, infatti, hanno ritenuto improprio utilizzare dei concetti mutuati dal linguaggio militare per spiegare al grande pubblico la pandemia. Nei suoi interventi, il primo su Micromega e il secondo pubblicato sul magazine Vita, la rivista del terzo settore, delle associazioni del terzo settore, Lei fa una riflessione molto articolata su queste tematiche e fa dei distinguo nell’interpretazione dell’uso della metafora di guerra. Potrebbe spiegarci in cosa consistono queste distinzioni, professore?”

Fabrizio Battistelli: “La cosa importante è capire, quando si usa una metafora, colui che la introduce che intenzioni ha. Può avere intenzioni buone o intenzioni cattive. Questo vale per qualunque strumento, naturalmente; la metafora è uno strumento linguistico e logico che di per sé può sia rivelarsi molto utile, sia essere sfruttato e servire a confondere. Quindi, dipende tutto dall’uso che se ne fa. Se l’idea è quella di utilizzarlo come una sorta di propulsore di energie, ad esempio per convincere un uditorio, determinati soggetti, un intero Paese a mobilitarsi, lo strumento funziona: il punto è mobilitarsi per che cosa. Se si tratta di stringere le fila di fronte a un’emergenza, come potrebbe essere una casa che va a fuoco, una barca che affonda, allora la chiamata collettiva ha un senso e una legittimità. Se si tratta di predisporre le condizioni per l’uomo solo al comando, lo stato di emergenza e tutti i poteri ad un ristretto gruppo di decisori o a uno soltanto, ecco, questa evidentemente è un’ipotesi da respingere e da combattere. In politica è spesso in agguato la possibilità che la seconda intenzione, quella negativa, quella strumentale, possa prevalere. Nello stesso tempo, da un punto di vista analitico sono da recuperare alcuni aspetti oggettivi della somiglianza tra una guerra e un cataclisma come la pandemia, ma sono anche da sottolineare le differenze, in quanto la guerra è nella grande maggioranza dei casi intenzionale (o sono state intenzionali le cause che l’hanno determinata), mentre il cataclisma, essendo di origine naturale, non lo è. Questo non esclude che l’uomo abbia delle precise responsabilità che co-determinano l’evento dannoso, come è la pandemia nel nostro caso. Se non ci fosse stata tutta una serie di strumentalizzazioni e di sfruttamento dell’ambiente e del territorio, che hanno reso invivibile l’habitat di alcune specie di animali selvatici come gli ormai famigerati pipistrelli, probabilmente non si sarebbe stabilito un contatto con gli animali domestici. Si pensi, è una delle ipotesi oggi in discussione, che senza l’allevamento intensivo e spietato di bestiame come i polli, i bovini, i maiali, non ci sarebbe stato probabilmente lo scatenamento della pandemia da Coronavirus. Quindi, anche quando è la natura l’habitat di un evento come questo, c’è sempre l’uomo che ha una sua responsabilità. Distinguerlo, tuttavia, dall’evento bellico, che è totalmente ed esclusivamente umano, è molto importante. ciò non solo e non tanto nella fase del contrasto, dato che quando la guerra è ormai scoppiata – così come quando è esplosa la pandemia – è troppo tardi. Ma, in entrambi i casi, e con una strategia totalmente diversa, anzi opposta, è possibile e doveroso intervenire nella fase della prevenzione. Per concludere, prevenzione per che cosa? Prevenzione dal perennemente paventato attacco nemico, come è tipico delle dottrine strategiche spesso non fattuali, non fondate su dati reali, bensì più o meno paranoidee? Invece, nel caso della malattia, soprattutto quella che compie il salto dalle specie animali all’uomo, è necessaria e possibile una prevenzione che può impedire l’evento, o se esso deve accadere, può tentare di contenerlo in modalità molto diverse da quelle caotiche cui in più casi nazionali ed europei (cui dovremmo aggiungere l’andirivieni dell’OMS) abbiamo assistito in questi giorni”.

Immagine tratta da Terre di frontiera (© Gianmario Pugliese, Viaggio al centro della pandemia)

Pietro Dommarco: “Grazie professor Battistelli. Introduciamo il professor Labanca. Come dicevamo nell’introduzione, nelle sue ricerche lei ha indagato sul piano storiografico, il rapporto tra guerra, forze armate e società nell’Italia otto-novecentesca. A sua memoria, professor Labanca, ricorda altre situazioni analoghe vissute nel passato che storicamente possono essere ricondotte a quella che viviamo oggi con l’emergenza sanitaria e con il confinamento nelle nostre abitazioni?”

Nicola Labanca: “Direi di no. Ovviamente, parliamo dell’esperienza italiana della guerra, ma anche se parlassimo dell’esperienza di altri Paesi, credo non ci sarebbero analogie. Sono d’accordo con Fabrizio Battistelli su quanto lui ha detto. In fondo, la metafora è impropria e rimanda alla politica. Qualche raffronto potrebbe essere fatto in maniera molto vaga con la situazione di coprifuoco, in cui Forze Armate o Stati obbligano le popolazioni a stare rinchiusi in casa. Oppure, con quelle situazioni incerte in cui le popolazioni, anche senza obbligo, si chiudono in casa o nei ricoveri, nell’attesa spasmodica di un attacco aereo. Ecco, queste sono le uniche fattispecie che mi sono venute alla mente. Ma sono appunto improprie somiglianze perché oggi non siamo in una situazione di guerra, non abbiamo il nemico armato alle porte e non cadono le bombe. Quindi ci sono somiglianze, ma sono di tipo giornalistico o impressionistico più che seriamente scientifico. Anche il tragico conto delle vittime è un fatto tutto diverso. Se noi prendiamo in esame le esperienze quantitative dei caduti della Prima Guerra Mondiale o della Seconda Guerra Mondiale e le raffrontiamo con le vittime odierne negli ospedali veramente non vi è paragone quantitativo e qualitativo che possa reggere. Probabilmente, come dice bene Battistelli, c’è un’intenzione in queste metafore. E lì dobbiamo stare attenti, perché una cosa è la rinuncia alla libertà e una cosa è il furto della libertà. Una cosa è la rinuncia momentanea che popolazioni, società, gruppi sociali possono fare per un periodo momentaneo ad alcune libertà in vista di uno scopo superiore e, invece, chi può approfittarsi di questi contesti per sottrarre quote di diritti civili e di libertà. È un po’ la differenza tra esprimere un consenso, ripeto momentaneo, ad uno stato di eccezione e l’essere costretto a vivere in uno stato di eccezione. Insomma, la differenza potrebbe essere tra l’Italia di oggi e l’Ungheria di Viktor Orbán di oggi. Una cosa è rinunciare alla privacy in favore di una tracciabilità informatica e che può essere utile obiettivamente, in alcuni casi, e l’uso distorto e antidemocratico dei suoi dati. Altra cosa questione, infine, è la presenza di uomini in uniforme nelle nostre strade, uomini che aiutano. Mi viene in mente la tragica fila di camion che porta le bare da Bergamo ad altre regioni. Ecco, di questa presenza di uomini in uniformi nelle strade, accanto alle popolazioni in difficoltà abbiamo molti precedenti sia in generale, sia in particolare in Italia. Ma su questo torneremo.”

Pietro Dommarco: “Grazie, Giovannipaolo.”

Giovannipaolo Ferrari: “Si, professor Battistelli, in un testo dell’ormai lontano 1996, Soldati, poi ha ripreso la questione in altri testi, in altri articoli, lei parlava della percezione delle forze armate in Italia e di come gli operatori militari si sentissero invisibili nella società italiana. Ci può spiegare che cos’è questa invisibilità delle forze armate e se oggi è ancora la stessa oppure, dopo l’11 settembre, la caduta delle torri gemelle e l’inizio della guerra al terrorismo, la percezione italiana a proposito dei militari è cambiata? Ricordo anche l’introduzione a un suo testo, Opinioni sulla guerra, del generale di divisione dei Carabinieri, Eduardo Centore, dove si diceva che la percezione delle forze armate era già cambiata dopo la missione di peacekeeping in Libano. Inoltre, quale visibilità stanno avendo i militari in questa vicenda del Coronavirus? Come lo Stato sta utilizzando le forze armate? A parte, giustamente, l’arma dei Carabinieri, ma io sto parlando dell’Esercito. Abbiamo visto, ad esempio, l’utilizzo degli Alpini per quanto riguarda la costruzione dell’ospedale di Bergamo.”

Fabrizio Battistelli: “Questa presenza e partecipazione delle forze armate a compiti di protezione civile non è una novità di questi giorni e non è qualche cosa che deve di per sé allarmare, perché rientra in un quadro normativo molto chiaro, che ha circa quarant’anni di storia. Il professor Labanca potrà essere ancora più preciso, comunque risale alla Legge dei principi (L. 382/1978) il concorso delle forze armate nella gestione delle calamità naturali. In questi casi si tratta di cooperare a fronte di danni causati da quelli che io chiamo pericoli e che distinguo dalle minacce. Queste ultime, invece, sono il compito primario e istituzionale delle forze armate, che consiste nel prevenire, e se necessario contrastare, le possibili minacce di un nemico in armi. Invece i pericoli sono, appunto, danni talvolta catastrofici di origine naturale, quali il terremoto, l’eruzione di un vulcano, un’alluvione, ecc. In tutte queste eventualità è prevista per legge una responsabilità politica del Governo e un, come dire, monitoraggio di costituzionalità da parte del Presidente della Repubblica che tra l’altro presiede il Consiglio supremo di difesa. Ciò non toglie che una collocazione dei militari è e resta una sorta di riserva strategica anche nel caso di emergenze naturali, sempre comunque sotto il controllo politico degli organi costituzionali, governo e parlamento. Quindi, vedere in questi giorni che medici militari vengono mobilitati e partecipano con i loro colleghi civili alla cura e all’assistenza sanitaria è una cosa assolutamente legittima ed, anzi, encomiabile. Così come il contributo che viene dato nel rapido allestimento di strutture temporanee quali tende ospedaliere e altro per integrare l’offerta di assistenza sanitaria. Ci sarebbe da riflettere sul perché nel nostro Paese (e non solo in esso, ma noi ragioniamo adesso per l’Italia) ci sia questo costante divario tra ciò che è necessario, o è prevedibile possa diventare necessario in certe circostanze, e ciò che si è in grado di mettere in campo. Questo è un vero problema e torniamo al cruciale tema della prevenzione. Quindi, la prevenzione è qualche cosa che dovrebbe avere una priorità assoluta, e anche nel momento decisivo della ripartizione delle risorse finanziarie dello Stato. In particolare, il Sistema Sanitario Nazionale è un presidio decisivo della collettività per la sicurezza nel senso più ampio e completo, almeno come la intendiamo in Europa, come la intendiamo nel nostro Paese. Altri Paesi hanno una filosofia diversa, a mio parere assolutamente non condivisibile, quella cioè di una salute tutelata da assicurazioni private, quando invece noi in Italia e in Europa abbiamo dato vita e usufruiamo ancora tutt’oggi (e sperabilmente anche in futuro) di un welfare state che si preoccupa dell’assistenza dei cittadini come di una priorità assoluta. Senza il benessere, la salute, la capacità di sopravvivenza delle persone, tutto il resto viene meno, compresa la dimensione economica. Giustamente, oggi, si reclama la tutela di quest’ultima, ma essa non può che seguire la garanzia della cura e della salute dei cittadini, i quali prima di essere produttori sono esseri umani, titolari di diritti.

Pietro Dommarco: “Grazie professor Battistelli. Professor Labanca ricorda come i governi in passato hanno fronteggiato questo tipo di emergenze? E qual è stato il ruolo giocato dalle forze armate? Volevo chiederle anche: in determinati casi non si può creare diciamo una sorta di sovrapposizione tra il ruolo giocato dalla Protezione Civile e il ruolo giocato dalle forze di Polizia? Perché adoperare la Protezione Civile che è un corpo di volontari, quando abbiamo migliaia di uomini addestrati per compiti specifici nelle forze armate? Come ci ricordava prima Giovannipaolo Ferrari, si prenda l’esempio degli Alpini che in pochi giorni sono riusciti a costruire un ospedale a Bergamo.”

Nicola Labanca: “Ma io sarei quasi per rovesciare l’affermazione. Ma perché dobbiamo ricorrere alle forze armate se abbiamo la Protezione Civile? E poi le segnalo: gli Alpini di cui si parla non sono gli uomini d’armi, sono i civili, già Alpini, che fanno parte dell’Associazione Nazionale Alpini. Un caso, diciamo, di una buona società civile: se abbiamo queste strutture, facciamole lavorare. A parte quest’ultima osservazione, poi ci ritornerò alla fine, quello che vorrei osservare è che da sempre, in realtà, gli Stati hanno fatto richiesta alle forze armate di intervenire in momenti di emergenza. Ciò avviene veramente da sempre, da quando gli Stati esistono. In fondo, le forze armate servono per la guerra esterna e per il controllo interno. Controllo interno sia dell’ordine sociale, sia dell’ordine pubblico, perfino dell’ordine sanitario. Quando c’erano le epidemie, già nell’età moderna si schieravano i soldati. Lo stesso è avvenuto con i militari, in maniera particolarmente frequente, fin dall’unificazione, fin dal 1861. Vediamolo, per quanto in maniera abbastanza schematica. L’Italia è particolarmente in ritardo rispetto ad altri Paesi nell’affrontare, diciamo, situazioni di sicurezza civile o di protezione civile come possiamo dire, dalla Legge del 1982 e di Polizia civile. L’Italia ha avuto una lunga storia di Polizia militare, con i Carabinieri e in parte anche con la Guardia di Finanza, prima di avere un consistente corpo di Polizia civile. In mancanza di questa polizia civile, durante l’Italia liberale e poi durante il fascismo, è chiaro che intervenivano le forze armate. Peraltro, le forze armate erano sempre intervenute, su richiesta dello Stato e dei governi, in appoggio alla società, quando vi erano delle difficoltà. Attenzione, dico in appoggio alla società come dico in appoggio allo Stato e ai governi, perché il rapporto è scambievole. Ad esempio, in inverno le valanghe, in estate il colera o comunque le malattie infettive, in autunno le alluvioni e poi in tutte le stagioni eruzioni, terremoti, ecc.: sono sempre state occasioni tutti gli anni di interventi militari in sostegno alla società civile e agli Stati, interventi talora di piccoli corpi di truppe, talora di truppe più consistenti. Anche nell’Italia repubblicana, non solo nella preindustriale Italia liberale. Pensiamo all’Italia repubblicana: lei mi trova telefonicamente a Firenze e l’alluvione di Firenze, l’alluvione del Polesine, il disastro del Vajont, il terremoto del Belice; quante volte le forze armate sono state mobilitate! E questo, ripeto, andava bene al tempo ed era una norma, soprattutto è necessario in Italia, dove le strutture civili sono state a lungo deboli. Ora queste strutture le abbiamo: abbiamo la Protezione Civile e abbiamo una serie di forze di volontariato. Mi ha molto impressionato quando, alla domanda se c’era qualche medico che voleva andare negli ospedali lombardi, hanno fatto domanda migliaia di persone. Mi sembra una straordinaria società civile questa. Certo va organizzata, certo ci vogliono delle competenze e qui le forze armate possono darle. Bisogna fare attenzione, però, qui al fatto (e su questo Fabrizio Battistelli ha scritto cose importanti) della mescolanza di compiti di Polizia ordinaria e civile svolti però da militari: perché quegli uomini che in uniforme intervengono al sostegno della società civile e dello Stato appartengono a forze armate che hanno un altro addestramento, altri compiti. Quindi, può darsi che facciano bene e sicuramente fanno bene: ma non è scontato. A montare una tenda fanno benissimo, nel montare un ospedale da campo vanno benissimo, però in generale lo Stato italiano, la Repubblica democratica italiana, dovrebbe investire molto di più in quest’altre forze civili che ora abbiamo, e di cui dovremmo usufruire chiamando le forze armate solo come extrema ratio, perché il loro scopo, il loro addestramento, il loro finanziamento puntano ad altro. Peraltro, le forze armate costano non poco e hanno, sono abituati ad avere, altissime tecnologie che forse non servono in questi casi di emergenza civile. Sanno guidare un F-35, ma non è detto che l’F-35 sia utile a combattere il virus. Quindi, c’è da chiedersi se lo Stato abbia investito quanto serve nel civile, mentre si investe nel militare affinché svolgano i suoi compiti. Poi, se ci sarà tempo, ritornerò su una polemica molto recente che c’è stata da parte di chi non vuole che i militari intervengano in queste epidemie, in queste emergenze, con scopi però che sono altri: il sogno di qualcuno che vuol tornare all’Esercito di leva. Ma se vi sarà tempo ritornerò su questo più avanti.”

Pietro Dommarco: “Grazie professor Labanca.”

Immagine tratta da Terre di frontiera (© Gianmario Pugliese, Viaggio al centro della pandemia)

 

Giovannipaolo Ferrari: “Grazie professor Labanca, e rimanendo su questi temi, oggi molti invocano, professor Battistelli, l’intervento dell’Esercito e la militarizzazione del territorio com’è accaduto in Cina, mentre altri, come ha fatto la Merkel in Germania, e anche alcuni dei nostri governanti, sostengono che in una democrazia come la nostra non si possano limitare le libertà individuali con un intervento coercitivo delle forze armate e la militarizzazione del territorio sostenendo che è una pandemia e non è una guerra, che siamo cittadini e non siamo soldati, siamo consapevoli che non siamo obbedienti, siamo solidali, non c’entra la patria. Eppure, molti di noi ricordano l’Operazione Vespri Siciliani dopo le stragi di Capaci e Via d’Amelio che portarono alla morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Molti di noi ricordano, a seguito delle stragi di Mafia, la mobilitazione dell’Esercito e l’invio, per circa sei anni, di contingenti militari fra i quali, appunto, gli Alpini, che non erano gli Alpini che hanno costruito l’ospedale da campo a Bergamo, ma erano Alpini, diciamo, militari ancora in servizio, non pensionati, in Sicilia per presidiare il territorio. Secondo lei, professore, in che maniera è stata affrontata l’emergenza Coronavirus dal Governo Conte e attraverso quali politiche per la sicurezza? E inoltre, gli interventi sono stati tempestivi ed efficaci? Quali sono le misure e le azioni da intraprendere in questa parte della crisi dal punto di vista delle istituzioni?”

Fabrizio Battistelli: “Diciamo che più che una domanda, questo è un insieme di seminari e di conferenze che dovremmo fare, e forse potremmo anche farli, ma ora dobbiamo proseguire il discorso che si stava facendo. Sono completamente d’accordo con Nicola Labanca: in un Paese democratico, ogni istituzione deve fare il proprio mestiere. Poi possono esserci dei momenti, rari e controllati, nei quali è necessaria la cooperazione di tutti e quindi anche la partecipazione, per esempio, dell’Esercito nelle strade, come avvenne nell’operazione Vespri Siciliani nel 1992. Voglio ricordare che si trattava di un momento-limite nella storia del nostro Paese, quando la mafia portò l’attacco al cuore dello Stato attraverso una serie di attentati dinamitardi in tutta la penisola, a Roma, a Firenze, a Milano, facendo dei morti. Quindi era veramente una situazione-limite e l’Operazione Strade Sicure, mi correggo: l’Operazione Vespri Siciliani (il lapsus non è casuale, la connessione è per differenza) ebbe una forte legittimazione anche da parte dell’opinione pubblica. Le forze armate diventarono meno invisibili, in senso positivo, per i cittadini soprattutto della Sicilia, ma in genere in Italia. L’operazione successiva, Strade Sicure, non possiede altrettanta motivazione, quindi la sua validità è tutta da valutare, da sottoporre ad analisi e da farne oggetto di ricerca. Quelle ricerche che negli anni ‘90 venivano fatte e oggi non vengono più fatte. Soltanto una motivazione molto pressante e contingente può giustificare la discesa in campo degli uomini e delle donne delle forze armate. Quanto alle possibili mescolanze di ruoli, esse non convengono a nessuno, né alle forze armate né alle forze dell’ordine, e neppure sono desiderate dai cittadini. Del resto, gli organi costituzionali sarebbero pronti a fermare una deriva di questo genere, semmai dovesse capitare; il che, fortunatamente, non è affatto alle porte. Ci sono dei fenomeni, invece, più insidiosi perché sono, per così dire, striscianti e, tra virgolette, strutturali in quanto hanno luogo un po’ in tutto il mondo occidentale. Magari a occuparsene sono soltanto gli specialisti (e ciò a torto): si tratta della progressiva attenuazione del confine tra l’azione delle forze di Polizia e delle forze armate propriamente dette. Un fenomeno che gli americani chiamano blurring, cioè la tendenza a sfumare, sfocare i confini tra le due istituzioni; una distinzione che, invece, è un grande traguardo dell’età moderna, della democrazia contemporanea, perseguito in secoli di storia occidentale. La separazione della gente d’armi, di quella che si chiamava la forza, in due organizzazioni, una dedicata alla difesa esterna e una dedicata alla sicurezza interna. È molto importante tenere distinti questi compiti e le relative organizzazioni che vi sono deputate. Ma nel mondo, in particolare negli Stati Uniti, una situazione di emergenza tragica com’è stato l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, ha innescato un processo di sovrapposizione tra forze armate e forze di Polizia. È molto probabile che questa sovrapposizione non sia gradita neanche alla Polizia, neanche alle forze armate. Nei Paesi occidentali è ormai consolidata un’interpretazione di separazione dei ruoli istituzionali tra militari e poliziotti. Per numerosi motivi di natura politico-giuridica, è inopportuna una trasformazione del ruolo e dell’identità di queste due organizzazioni, che da un lato rappresentano due pilastri dello Stato e dall’altro è indispensabile siano controllate politicamente dagli organi costituzionali, rappresentativi e di governo. Devono essere seguiti, con capacità di partecipazione e informazione, anche ad opera dell’opinione pubblica, contemporaneamente mantenendo un’identità che consenta loro di svolgere quelle funzioni per le quali, in ultima istanza, sono pagate. Lo sono da parte di tutti noi cittadini (almeno quelli tra noi, e siamo la maggioranza, che paghiamo le tasse), motivati a mantenere allo Stato poteri e funzioni che un domani non debbano essere privatizzati, come invece avviene in qualche altro Paese. Mi riferisco non soltanto alla solita America, ma anche alla Gran Bretagna, dove si sono imposte forme di privatizzazione di funzioni proprie dello Stato come l’esecuzione della pena, così che oggi il 50 per cento dei penitenziari sono gestiti da imprese private. Mi auguro che almeno nell’Europa continentale (questa potrebbe essere una delle poche ricadute positive della Brexit) non si affermi l’idea di confondere Polizia e forze armate e, soprattutto, che non si confondano pubblico e privato nell’esercizio dell’ordine pubblico, che è esclusiva competenza dello Stato. Ciò non impedisce, nelle emergenze, la cooperazione con altre organizzazioni proprie della società civile, del terzo settore, del volontariato, nonché di altre istituzioni pubbliche quali i Vigili del fuoco e la Protezione Civile. Potenziamole e auspichiamo la collaborazione, ma ciascuno deve mantenere ben delineata la propria sfera di competenza.”

Pietro Dommarco: “Grazie, professor Labanca vuole aggiungere qualcosa?”

Nicola Labanca: “Lo storico osserva il passato e al massimo il presente. Il futuro lo lascia ai sociologi che danno delle indicazioni ai decisori politici. Una certa non soddisfazione da parte delle forze armate a svolgere compiti di Polizia, da quando esse sono professionalizzate, diciamo grossomodo dalla fine dell’800, c’è sempre stata ed è anzi stata crescente per tante ragioni. In primo luogo, perché le forze armate sono abituate a operare in reparti relativamente grossi mentre invece in ordine pubblico i reparti sono frazionali. In secondo luogo, perché queste attività tolgono tempo all’addestramento bellico. In terzo luogo, perché non aiutano molto ad avere una buona fama tra i cittadini, di solito. Insomma, per tante ragioni già nell’800 molti militari non volevano svolgere queste funzioni, cui pure lo Stato li chiamava e che eppure essi svolgevano ed hanno svolto, ripeto, sino ad oggi. Oggi il vento è in parte cambiato e alcuni, soffiando nel vento, sostengono ancora che di nuovo le forze armate non debbano svolgere questi compiti, ma qualcosa di nuovo. Come ho accennato prima, essi auspicano anche in Italia, scimmiottando gli Stati Uniti, la creazione di una interamente nuova forza armata a soli scopi di difesa interna, per la home defense come si dice, appunto, negli Stati Uniti. Ma questi sostenitori sbagliano completamente obiettivo, perché intanto non sanno bene che cos’è la home defense statunitense, non sanno che non è una struttura militare ma una struttura civile, i cui vertici sono sempre stati civili da quando è stata istituita negli Stati Uniti, né forse sanno che ha fondi di una certa consistenza solo perché organizza, coordina e dirige una ventina di agenzie, tra cui l’equivalente italiano della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera. Non credo che questi recenti sostenitori della militarizzazione estrema della difesa interna attraverso le forze armate e la creazione di una National Guard con la creazione di una home defense italiana, sappiano o pensino a tutto questo. Da noi, son sarebbe pensabile. Il fatto qual è? Il fatto è che in Italia le forze amate sono da tempo in crisi rispetto alle loro aspettative di finanziamenti: tendenzialmente dalla fine della Guerra fredda essi sono anche diminuiti. Sì, negli ultimi anni c’è stato un certo rilancio in valore assoluto ma certo essi non raggiungono ancora né raggiungeranno il livello del tempo della Guerra fredda. E allora si cercano finanziamenti nuovi. In questi ambienti non si vorrebbe ‘sprecare’ il finanziamento destinato alle forze armate di oggi con questi compiti di difesa civile interna. Questo in linea generale. C’è poi, invece, un altro aspetto che è un po’ più venale, ma di cui pure bisogna tener conto. Mentre una parte dei militari – rischiando la vita operando in missioni all’estero – riceveva un corrispettivo economico (e questo era necessario, e lo diciamo con il massimo rispetto da parte mia e penso da parte di tutti gli studiosi), è un dato di fatto che un’altra parte delle forze armate e del suo personale militare non poteva adire a quella via. In questo caso ci si è avvantaggiati economicamente delle missioni nazionali interne tra cui quelle ricordate, Strade Pulite, Strade Sicure e le altre, non di rado rischiose almeno quanto quelle di controllo di obiettivi sensibili. Qui, c’è una questione importante, che va però risolta alla radice, pagando molto bene i militari, perché rischiano la vita, e non fare in modo che essi attendano di operare in missioni che, come dice molto bene Battistelli, contribuiscono alla progressiva attenuazione, all’erosione della distinzione tra forze dell’ordine e forze militari. Visto che non vogliono farlo, è bene che non lo facciano anche se ci guadagnano un po’ di più. Ci si chiede allora perché non pagarli meglio e investire invece una parte di risorse sulle strutture civili, che ormai abbiamo. Tra l’altro, ricordo che la Corte dei Conti già molti anni fa stese una relazione apparentemente positiva su questo uso delle forze armate a scopi di ordine interno, ma nella sostanza molto critica: scriveva che esse erano efficaci ma anche che non facevano risparmiare un granché lo Stato. E molto di recente, l’anno scorso, c’è stata un’indagine conoscitiva della Commissione Difesa della Camera, che si è occupata di questo. Quindi, insomma, forse questo vuol dire che non tutto va benissimo. Altrimenti perché la Corte dei Conti e il sindacato diciamo ispettivo del Parlamento avrebbero dovuto segnalare questi problemi? Ecco, è per queste ragioni che lo storico si chiede se è bene che ognuno svolga il proprio mestiere, pur essendo enormemente grati a chi mette a repentaglio la propria vita anche di fronte a un virus che al momento non conosciamo. Quindi, insieme alla gratitudine nei confronti degli operatori delle forze armate, delle forze dell’ordine, ecc., ci sarebbe una considerazione che lo storico fa sull’opportunità di continuare ad attenuare questi confini tra forze dell’ordine e forze militari e ad erodere il confine tra pubblico e privato. Si chiede perché l’Italia democratica non investa un po’ di più sul militare, ma anche perché non spenda bene, e soprattutto perché non investa sul civile. Qui siamo in grande ritardo.”

Immagine tratta da Terre di frontiera (© Gianmario Pugliese, Viaggio al centro della pandemia)

Pietro Dommarco: “Grazie professor Labanca. Noi facciamo un minuto di pausa e ci risentiamo tra poco.”
[pausa] “Di nuovo in diretta su Radio Covid, l’ultima domanda per i nostri ospiti. La faccio ad entrambi. Come bisogna affrontare il grande tema del rapporto tra democrazia e sicurezza alla luce del Covid-19? Prima il professor Battistelli e poi il professor Labanca.”

Fabrizio Battistelli: “Io penso che il bilancio che possiamo trarre sull’emergenza Coronavirus in Italia non sia poi così negativo dal punto di vista politico (mentre c’è da essere molto più critici negli aspetti organizzativi della pubblica amministrazione centrale e regionale). In particolare, non mi sembra di vedere una minaccia alla democrazia per aver chiesto alla popolazione, e di fatto disposto, che essa collaborasse nel distanziamento sociale, nella riduzione delle attività esterne, nella quarantena per alcuni, durante la fase più acuta del contagio. Sono le forme di mitigazione dell’epidemia che, se non disponi di un vaccino o, in un’alternativa, di un apparato di prevenzione serio come quello della Corea del Sud, sono inevitabili. Certo, si ha il diritto di discuterne in una prospettiva non solo politica ma anche prettamente filosofica. Personalmente sarei più portato a giudicare le misure prese dal governo dal punto di vista sociale. Sarei portato a vederle anche dal punto di vista psicologico in termini di costi, di stress e di limitazioni che colpiscono la nostra vita quotidiana, senza ombra di dubbio, e impongono un sacrificio, un grosso sacrificio, soprattutto ai ceti sociali meno garantiti. Mentre fare del distanziamento una questione di impedimento delle libertà e dei diritti, quasi, non so, ideato, voluto, frutto di una qualche cospirazione, a me sembra fuori luogo. Dico la verità, ritengo necessarie le misure di contenimento e, quindi, anche di regolazione di comportamenti in senso restrittivo, pur consapevole che comportano il sacrificio delle persone. Questo è indubbio, però fa molto riflettere che l’opposizione più intransigente a queste misure venga dai due estremi dello schieramento politico-culturale. Non sto parlando di partiti, non sto parlando di politica attiva, piuttosto come sociologo cerco di vedere che cosa significa oggi, al tempo del Coronavirus, essere cittadini di un Paese, essere membri di una collettività. Questo punto di vista distingue nella cultura politica un orientamento che tende a immaginarsi come parte di un gruppo e un orientamento strettamente individualistico. Così come distingue una visione metafisica da una più empatica, fondata, avrebbe detto Karl Marx, su attori sociali che entrano in relazioni tra loro che sono relazioni economiche e di potere. Può accadere che alcune forme di libertà e di gratificazione individuale debbano cederne quote, sottolineo, provvisoriamente, in vista di un bene più ampio. E – quindi – mi pare piuttosto strana l’attuale convergenza tra posizioni ideologiche radicali che traggono origine dal pensiero di Michel Foucault ma poi, paradossalmente, finiscono per convergere con le idee di un teorico molto intelligente, ma molto, molto di destra, come Carl Schmitt. Certamente bisogna tenere sempre desta l’attenzione sulle possibili derive autoritarie, sugli uomini soli al comando, sulle richieste di pieni poteri di questo genere, ma obiettivamente non mi sembrano in vista in Italia in questi giorni. Preoccupano di più le pressioni liberiste e l’insofferenza nei confronti dei vincoli imposti per motivi di salute pubblica, così come sono espressi da settori imprenditoriali. Con ciò non c’è da colpevolizzare nessuno, si tratta di una normale dialettica democratica. La pandemia da un lato e dall’altro le severe misure di contenimento intraprese hanno un costo rilevante per il nostro Paese in termini di contrazione del prodotto interno lordo, che si stima possa perdere ben il 10 per cento rispetto all’anno precedente. Quindi, non si parla di qualcosa di pretestuoso. Tuttavia, mi sembra discutibile che diventi questo il criterio principale rispetto al superamento di alcune misure circa le quali la voce soprattutto da ascoltare è quella che proviene dal mondo scientifico e sanitario. Dopodiché i politici si prenderanno le loro responsabilità, il Governo in ultima istanza deciderà, mantenendo in primo piano, ritengo, che cosa è possibile e doveroso fare per la nostra salute.”

Pietro Dommarco: “Grazie professor Battistelli, professor Labanca cosa ne pensa?”

Nicola Labanca: “Dopo l’ampia disamina di Battistelli, aggiungo solo poche note. La prima è che lo storico ha in mente che, circa cento anni fa, una vera epidemia disastrosamente più grave di quella che noi stiamo adesso affrontando (almeno ad oggi), fu quella della influenza detta Spagnola con tanta difficoltà combattuta dai vari Stati nazionali appena usciti dalla Prima Guerra Mondiale. Fa impressione a uno storico che un secolo più tardi le risposte in Europa siano state più o meno ugualmente nazionalizzanti o rinazionalizzate e non coordinate a livello europeo. Questo, allo storico, appare veramente una cosa grave. Come grave è la strumentalizzazione politica banale, che lo storico come qualunque altro cittadino osserva oggi in Italia sia tra centrodestra e centrosinistra, sia soprattutto tra regioni e Governo, tra Lombardia e Roma. Francamente, lo storico si chiede se non ci vorrebbe davvero, non tanto maggior coesione nazionale, in questi casi, quanto coesione europea. Certo, lo storico si chiede se davvero non convenga mettere, come diceva Battistelli, se non i filosofi almeno gli scienziati al potere e non questi politici, se i politici sono così e se i loro orizzonti sono così angusti: territoriali, nazionali e non europei. Per quanto riguarda il punto che più strettamente mi compete, quello dei militari, ripeto che non mancano le ragioni di vedere i militari nelle strade. Dobbiamo essere – credo – molto grati ai singoli militari, ai corpi, ai reparti, a chi li comanda, così come alla politica che li ha mandati ad aiutare i civili, come peraltro è sempre stato in Italia. Possiamo solo osservare se forse non sarebbe il caso, sempre più, almeno in queste emergenze, di investire maggiormente sul civile e di lasciare al militare gli altri suoi compiti. Lascerei da parte le polemiche di oggi, che si ritengono di sinistra, di coloro che non vogliono i militari. Non abbiamo altro, in talune situazioni, quindi è benissimo che i militari vadano. Lascerei da parte anche le polemiche, che si ritengono di destra, di coloro che sognano per i militari una nuova forza armata, la National Guard: se non abbiamo i soldi, come Paese, per pagare bene le odierne forze armate, come sarebbe possibile trovarne altri per una nuova via? Forse che questi polemisti pensano di spezzettare il bilancio dello Stato per darlo ad una nuova forza armata? Oppure essi si illudono che i margini del bilancio italiano permettano davvero di creare un’altra forza armata a fianco delle quattro che già abbiamo? Francamente mi sembrano veramente polemiche ambedue di scarso respiro storico. Semmai, sarebbe meglio prepararsi per tempo, prepararsi in sede europea, in sede multinazionale e sovranazionale, prepararsi con cura: non fare confusione, non spendere male quei pochi soldi che ci sono. Perché ne va della vita delle persone, degli ammalati, dello studio scientifico sul combattere questa pandemia e sull’avere un’Italia migliore all’uscita da questo tunnel. Ecco, questa potrebbe essere una lezione dalla storia nel rapporto tra nazione ed Europa e, all’interno della nazione, fra civili e militari.”

Pietro Dommarco: “Grazie. Ringraziamo i professori Fabrizio Battistelli e Nicola Labanca per aver accettato il nostro invito e per essere stati qui con noi questa sera. Un altro minuto di pausa e ritorniamo con le conclusioni, con il consueto editoriale di Giovannipaolo Ferrari. A tra poco.”
[pausa] “Siamo ritornati su Radio Covid e a questo punto saluto ancora i nostri ospiti e lascio la parola a Giovannipaolo Ferrari.”

Giovannipaolo Ferrari: “Si Pietro, mi sembra che dal dialogo di questa sera sia emersa una vecchia questione che fa parte del dibattito tra democrazia e sicurezza cioè la controversia che vede da una parte la democrazia e dall’altra il concetto di libertà nella visione strumentalista e pragmatista anglo-americana del liberalismo politico ed economico: qualcuno ritiene che siano conciliabili, altri meno ed altri ancora hanno cercato terze e quarte vie. Se risaliamo alla fine dell’800, il concetto di democrazia si confondeva, all’epoca, per i nostri combattenti risorgimentali, con il concetto di socialismo ed era qualcosa di totalmente differente e distante dal liberalismo e dagli ideali del liberalismo. Successivamente, si cercherà di saldare, di unificare questi due concetti, queste due concezioni: la democrazia e il liberalismo. In Italia, scienziati politici, politologi ed economisti come Norberto Bobbio e Luigi Einaudi cercheranno di fare questa operazione nel Dopoguerra. Ma oggi, e credo che sia emerso anche dal nostro discorso di questa sera, vale forse quella critica dei sostenitori della rivoluzione sociale, quella critica che veniva da sinistra tanti anni fa, verso il modello delle nostre democrazie liberal-democratiche incompiute. Quella critica di guardare sempre a Occidente, guardare sempre al modello americano, cercare sempre di implementare politiche pubbliche neoliberiste: potremmo togliere anche l’aggettivo pubbliche e dire politiche neoliberiste. Emergeva dai discorsi del professor Battistelli e del professor Labanca: questa tendenza a guardare sempre oltre Atlantico e cercare di imitare anche quando non fa parte della nostra tradizione di welfare state, di stato sociale, cercare di imitare ciò che avviene nel mondo anglosassone. Eh no, qui purtroppo bisogna puntare i piedi, non bisogna lasciar scappar via i diritti acquisiti dai nostri padri attraverso battaglie durate decenni nel Dopoguerra. Come abbiamo costruito il nostro welfare, il nostro stato sociale, soprattutto nell’Europa continentale, soprattutto in Paesi come la Francia e l’Italia, non ha precedenti. I diritti acquisiti dalla nostra cittadinanza devono essere inalienabili, non devono essere toccati. E qui riprendo alcuni spunti della discussione, quando il professor Battistelli, appunto, parlava di prevenzione, bisogna fare una seria riflessione al riguardo. Abbiamo parlato di sicurezza, sicurezza sociale, sicurezza nazionale; parliamo di emergenza, stato emergenziale, stato di emergenza, ma non abbiamo parlato di prevenzione cioè di quello che è mancato in questa situazione. Il ritardo strutturale, endemico dei nostri apparati istituzionali è stato questo: la mancanza di prevenzione dopo aver avuto negli anni precedenti molte avvisaglie: come l’AIDS, l’Hendra, il Nipah, l’Ebola, il Lyme, la SARS, la Mers. Dopodiché, è vero, come diceva il professore Labanca, non possiamo fare paragoni con le epidemie, le pandemie del passato, con quello che è successo con l’Influenza spagnola all’inizio del secolo scorso. C’era anche un’altra situazione sociale: si verificò nel Dopoguerra, quindi, il morbo aveva avuto gioco facile, non c’erano nemmeno le conoscenze mediche che abbiamo oggi, ma a parte tutto, questi paragoni non stanno in piedi. Però, è vero anche che dovremmo pensare alla prevenzione come alla cosa più importante da fare, come qualcosa di strutturale nel nostro sistema sanitario nazionale. Mi viene in mente, per il fatto che il prof. Battistelli ha citato Michel Foucault, di sovvertire l’ordine delle cose e delle parole che Foucault metteva in piedi in un titolo di un suo libro: Sorvegliare e punire. Non sorvegliare e punire, ma sorvegliare e prevenire: sorvegliare che non deve essere inteso come un’azione coercitiva, appunto, messa in essere dalle forze armate, dalle forze di polizia che cercano di mantenere l’ordine nelle nostre città. Per sorvegliare deve intendersi una sorveglianza che deve venire prima di tutto dal basso: dalla società civile e poi deve passare per le associazioni, per le istituzioni, per chi deve essere preposto a portare avanti questa “sorveglianza del rischio”. Stiamo parlando di malattie, di epidemie, quindi, i soggetti deputati a tale prevenzione dovrebbero essere soggetti pienamente pubblici come, ad esempio, l’Istituto Superiore di Sanità. Prevenire, prevenire queste situazioni incresciose, essere pronti, essere attrezzati. Quello che non abbiamo avuto e fatto. Abbiamo avuto e fatto, invece, e continuiamo ad avere purtroppo un’informazione confusa e una comunicazione politica al posto di una comunicazione di crisi. Il 13 aprile, Macron nel suo discorso alla nazione, ha detto che le scuole in Francia riapriranno l’11 maggio e che gli eventi pubblici non riprenderanno prima della metà di luglio. Probabilmente è un suicidio sociale, un suicidio di massa e bisogna capire davvero chi sono i consiglieri che circondano il Presidente della Repubblica francese, perché in questa emergenza sanitaria non ne hanno azzeccata nemmeno una! Anche se, probabilmente, potrebbe leggersi come una strategia per prendere tempo: dare delle date precise, dare dei momenti precisi per convincere la popolazione francese che l’11 maggio c’è un termine, si tornerà a scuola; che a metà luglio o più o meno a fine luglio si potrà andare di nuovo a concerti, a teatro, al cinema e gli eventi pubblici saranno di nuovo organizzati e riaperti al pubblico. Ecco, questa può essere una strategia, una strategia suicida, perché non è il caso di riaprire così in fretta e in questo la prudenza che sta mostrando il governo italiano è, in un certo senso, da prendere ad esempio. Ma troppa prudenza non da né certezze, né suggerimenti utili alla cittadinanza che aspetta chiusa in casa, barricata in casa direi. Comunque, ieri sera i francesi hanno avuto delle date precise e delle informazioni più o meno chiare su come sarà organizzata la loro vita nei prossimi mesi. E in Italia? Dopo una serie di conferenze stampa di natura quasi “confidenziale” del Presidente del Consiglio dove si è parlato soprattutto delle emozioni, dei sentimenti, del momento; più che di politiche e azioni da attuare immediatamente. Nel nostro Paese i giornali, fino ad ora, hanno puntualmente anticipato e pubblicato il giorno prima tutte le decisioni prese dal Governo. Purtroppo, ci troviamo ancora in questo limbo in cui navighiamo a vista dove sentiamo davvero la liquidità intorno a noi senza capire cosa sarà il domani. Ecco, forse in questo ci vorrebbe più chiarezza come ci vorrebbe più chiarezza, e riprendo qui il discorso sulla Protezione Civile. Infatti, è vero come dicevano il professor Labanca e il professor Battistelli che bisogna dare più quote di diritti civili e di libertà e che bisogna investire più nel civile che nel resto e bisogna far crescere organizzazioni come la Protezione Civile. Però, è vero anche che la Protezione Civile in molti centri, in molti comuni, in molte aree del nostro territorio, del nostro Paese diventano il braccio del sindaco di turno come sta succedendo in molte zone e molti cittadini si lamentano che quelle “casacche verdi” siano indossate da persone che, in realtà, non hanno avuto nessun addestramento, nessuna qualifica, non hanno nessuna competenza per svolgere quel ruolo e diventano soltanto persone che i sindaci smistano, utilizzano per fare qualsiasi cosa a loro piacimento. Quindi, anche sulla Protezione Civile bisogna fare attenzione, in special modo dopo quello che è successo dopo il terremoto all’Aquila e tutti gli scandali che in seguito hanno investito la Protezione civile. Quindi, concluderei in questa maniera, dicendo: stiamo attenti, teniamoci stretti i nostri diritti acquisiti con il sudore e con battaglie da parte dei nostri padri soprattutto battaglie politiche, battaglie sindacali dopo la Seconda Guerra Mondiale; però cerchiamo anche di, dirò una bruttissima parola però non ne posso fare a meno, sburocratizzare in questo momento l’azione del governo. Le partite IVA, i piccoli commercianti, i piccoli professionisti attendono, aspettano questo contributo sui loro conti corrente. Non facciamo di nuovo l’errore di far parlare i giornali esteri e i nostri quotidiani nazionali sul fatto che la Germania è arrivata prima, la Francia è arrivata prima. Ci vogliono azioni concrete, veloci, rapide per dare sicurezza alla gente in questo momento.”

Pietro Dommarco: “Grazie Giovannipaolo Ferrari e siamo arrivati alla conclusione del settimo appuntamento in diretta con Radio Covid. Vi do appuntamento a giovedì 16 aprile alle 21:15 e vi ricordo che la puntata di questa sera è possibile riascoltarla immediatamente sul nostro sito www.radio-covid.it. Buonasera!”


Per citare questo articolo: Ferrari G., Dommarco P. (2020). Democrazia e sicurezza. La nuova sfida del Covid-19. Intervista a Fabrizio Battistelli e a Nicola Labanca. Radio Covid, Ossopensante, Roma.